Don Luigi

Don Luigi era il secondo di una nidiata di figli di una cascina in collina nel Comune di  Cassine,  paese del Monferrato, dalla grande tradizione Francescana. Già da bambino aveva sentito la “chiamata”, e mentre i fratelli più piccoli correvano schiamazzando ed inseguendosi in mezzo a galline e tacchini e pannocchie di granturco poste a seccare davanti a casa,  Gigino sfuggendo al controllo materno, correva su verso la maestosa e severa Chiesa in cima alla collina che portava appunto il nome di  Chiesa di San Francesco. Era una costruzione risalente al XIV° secolo, una vera e propria acropoli religiosa: una grande piazza a forma di imbuto, con il selciato di pietre tonde, delimitato da un lato dalla maestosa chiesa con a fianco il piccolo Oratorio, dall’altro il Palazzo comunale, con grandi arcate rinascimentali. Gigino varcava il maestoso portale e si sentiva improvvisamente al sicuro. Piegato su di una fredda panca, con le ginocchia nude a contatto con il ruvido legno, faceva roteare tutto intorno i suoi penetranti occhi scuri, soffermandosi affascinato ora sulle reliquie di Sant’Ubaldo, ora seguendo le volute disegnate dagli archi ogivali e a tutto sesto, bordati di mattoni di cotto e arenaria, in un motivo rosso e bianco di grande maestosità, in puro stile gotico lombardo. Respirava quell’aria impregnata di incenso che per lui era l’habitat naturale, ed osservava rapito gli affreschi con le storie dei Magi e della Vergine Maria, cui era solito dedicare le sue preghiere più accorate. Poi il suo sguardo si posava sulle figure dei Santi minori, con gli occhi rovesciati all’insù e dei Pontefici San Pietro e San Gregorio Magno, di cui tanto avrebbe desiderato seguire le orme.

Lo teneva sott’occhi uno dei Padri Cappuccini, Ordine che si era insediato nel convento da qualche secolo, spodestando i Francescani. Frate Anacleto, vedendo l’assiduità delle visite e la concentrazione della preghiera, aveva subito colto le potenzialità del bambino e la sua predisposizione nell’abbracciare il percorso ecclesiastico. E così, avuta direttamente dall’interessato conferma della volontà di indossare, da grande, la tonaca, prese per mano il bambino, o meglio tentò di farlo, ma lui si ribellò divincolando la manina e scrollandola, quasi a far cadere a terra l’ombra del contatto, e così camminando fianco a fianco, si recarono alla cascina di famiglia a parlare con i genitori: un passo Padre Anacleto, che con la falcata  trasportava senza fatica la sua corpulenta sagoma, due passi Gigino, con le gambette nude che uscivano da un paio di pantaloncini tutto pezze e rammendi.

Le cose non filarono proprio lisce all’annuncio delle intenzioni del ragazzo: mentre la mamma si faceva gran segni di croce, non si sa se per ringraziare il Signore della grazia nuovamente ricevuta, o per avere il perdono per averne pensato male, il padre divenne dapprima paonazzo cercando di controllarsi, nel rispetto del saio che gli stava di fronte, ma dopo qualche secondo la sua rabbia esplose:

−Ma sa’c che ve scherde vuiocc, me a j ho bzogn ed bross ch’ i travojo, nenta ed prediche e discurs; sà em n’ei pijò ien, i n’ei nenta a basta? (Che cosa vi credete voialtri? Io ho bisogno di braccia che lavorino, non di prediche e discorsi. Già me ne avete preso uno, non vi basta?)−,

così riferendosi al primogenito, che pochi anni prima aveva intrapreso la stessa carriera. Superata la prima bufera però, frate Anacleto, che era abituato a trattare con i peccatori, e ne sapeva toccare i punti deboli, riuscì a pilotare con maestria la situazione, ponendo quale primo immediato vantaggio tra tutti gli altri, il prestigio che gli sarebbe derivato tra i compaesani, nell’essere padre non di un solo sacerdote, che casi così ce n’erano già, ma di ben due e questo era un vero record.  E così l’educazione di Gigino passò di mano.  

Mamma, papà, fratelli e sorelle lo abbracciarono, cosa che Gigino dovette sopportare, non senza un certo fastidio; mamma addirittura gli appioppò un bacio sulla guancia di cui il bambino si affrettò a ripulire la traccia con il palmo della mano e si avviò da solo giù per la discesa col suo fagotto verso il nuovo destino, mentre i familiari salutavano con gli occhi umidi, agitando i fazzoletti.

Trascorsero gli anni del Seminario durante i quali Gigino doveva solo obbedire.  Sottoposto ai metodi educativi dei Padri spirituali, ne aveva potuto assimilare l’arte del comando ed era così arrivato alla conclusione che, con il sistema repressivo, si otteneva molto di più che con il convincimento: mentre infatti il primo metodo funzionava sempre con tutti indistintamente, con il secondo occorreva fare qualche distinguo.

 Con quel credo ben radicato nel cervello Gigino crebbe e si trasformò in Luigi, anzi per l’esattezza in Don Luigi. La crescita si era arrestata sul metro e settantacinque, che per i tempi era una statura ragguardevole, magro, occhi scuri penetranti sotto i sottili capelli neri, naso aquilino, mento un po’ sfuggente, carnagione chiara su cui risaltavano guance scarne arrossate, aveva quella che può essere definita una “faccia da piemontese”. Le labbra tese e sottili avevano gli angoli rivolti all’ingiù, fissi nell’espressione di disgusto per il peccato, per lui presente in ogni persona e in ogni cosa.  Emanavano dal suo essere il rigore e l’inflessibilità che sapeva applicare indistintamente a se stesso e agli altri, uniti alla determinazione di combattere con accanimento contro il demonio nelle sue varie forme, fino a cantare l’alleluia. 

A poco più di vent’anni, concluso il percorso di preparazione e presi i voti, Don Luigi ebbe assegnata, in temporaneo affiancamento al predecessore, la Parrocchia di Visone come prima destinazione, che fu poi l’unica e nella quale negli anni fece anche carriera divenendo Monsignore. Ma lui tutto questo ancora non lo sapeva quando, letta la scritta “Visone” in nero stampatello sul cartellone metallico a fondo bianco che pendeva oscillando debolmente mossa dall’arrivo del treno, ne scese con la sua valigia di tela color grigioverde, un po’ sdrucita sui bordi, che, per le poche cose che conteneva, somigliava nella forma più ad un sacco che ad una borsa.  Era il 1919, un sabato pomeriggio assolato di fine luglio, non un’anima in giro, aria immota, l’orologio della stazione segnava le 14. Pochi passi tra un assordante frinire di cicale per il sentiero che costeggiava il retro del paese, lungo un percorso alberato di ippocastani, imboccò il vicoletto dallo storico nome “Ande (Vicolo) dei Saraceni” a memoria delle antiche invasioni,  e sbucò proprio davanti al sagrato della “sua” chiesa: percorse  in velocità i pochi gradini a semicerchio e varcò la soglia,  spalancando il portone con tale vigore che il battente andò ad urtare con violenza contro le sedie di paglia ammonticchiate, e la pila, dopo essere rimasta per un attimo in bilico, nell’esitazione della scelta del lato su cui abbattersi,  compì abilmente una rotazione di 90° su se stessa e cadde con grande fragore sulle ultime panche della fila di sinistra; la sedia più in alto andò in mille  pezzi, con schegge e paglie che saltavano di qua e di là  ed il rimbombo echeggiò  fino al transetto:  era arrivato Don Luigi!

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