Erano tante le sorelle Goslino, tutte nate sullo scavallare dell’800 verso il ‘900 in quel paesino della bassa val Bormida. Vi si parlava un dialetto aspro e disarticolato, così incomprensibile ai foresti, venuto fuori nei secoli da quel via vai di invasioni e guerre, che, a partire dal VI secolo, aveva caratterizzato tutta la zona appenninica e pre-appenninica, denominata “Limes”: Longobardi, Bizantini, Carolingi, Papi, imperatori germanici, Francesi, persino Napoleone, fecero i loro passaggi e ogni tanto si fermavano a governare un po’ per essere spodestati dai nuovi arrivati; si giunse così fino al Congresso di Vienna, in cui Visone fu annessa alla Provincia di Alessandria, entrando a far parte del Regno dei Savoia, sotto Vittorio Emanuele I.
Ma di questo la famiglia Goslino non si interessava, dovendo concentrare l’attenzione sul soddisfacimento dei bisogni quotidiani, primo fra tutti riuscire a campare.
Cinque femmine su nove figli complessivamente, tutte così incredibilmente diverse per aspetto e carattere, ma legate tra loro da quel non so che di famiglia, indefinito ma riconoscibile, che consentiva a chiunque le avesse incontrate, di individuarne la parentela, al di là delle macroscopiche differenze. Le ultime nate le gemelle Benvenuta e Fortunata, fra loro meno somiglianti che mai.
Vita dura mantenere nove figli facendo il falegname. Soprattutto perché a quel tempo mobili se ne vendevano pochi: anche il signor Ikea avrebbe avuto le sue difficoltà.
Gli arredi erano ridotti all’osso; nessuno “metteva su casa”, al massimo si trasferiva, con il suo fagotto, dai genitori del lui o della lei, a seconda dei casi e, se si era fortunati, si aggiungeva un volume alla casa. Ma con due pagliericci riempiti con le foglie delle pannocchie di granturco il problema arredi era risolto.
Aveva un bel da fare papà Goslino a tirare avanti la baracca. Panche, sedie, tavoli e comodini restavano a fare bella mostra di sé nel laboratorio, in mezzo a montagne di trucioli e segatura che finivano nella stufa di casa durante i rigidi inverni. Le code di rondine dei cassetti, gli intarsi dei comò nelle tonalità del rosa e del giallo, gli sbalzi e i ceselli delle gambe e delle testiere dei letti si andavano sempre più ammonticchiando in fondo al magazzino.
A casa Goslino gli unici eventi capaci di arrecare un minimo di benessere, una boccata di ossigeno per l’umore e per la pancia di tutta la famiglia, erano gli eventi funebri. Delle casse da morto, almeno di quelle, non si poteva fare a meno. E quindi, non ci facciamo sentire, ma… festa grande quando:
−L’è mòrt Carlon, il fieul grand del vecc Beppe −,
diceva papà Goslino, portando a casa un bel pezzo di arrosto di maiale e sbattendolo con malcelato orgoglio sul tavolaccio di cucina, mentre cercava e riceveva lo sguardo grato della moglie Angela. E per quel giorno, non solo polenta intinta nel latte.
E così, tra un funerale e l’altro, ma non senza difficoltà, i figli e le figlie si facevano grandi.